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La società della prestazione: non competere. Prendi la via del bosco

Siamo stati programmati per il successo.

La prestazione.

Il confronto e la competizione continua.

I risultati sono quelli che contano.

Il duro lavoro ripaga sempre.

Work hard e no pain-no gain riassumono bene il mito americano del vuoi puoi, Yes, we can.

Del tutto è possibile o niente è impossibile.

Benvenuti nella nuova società della prestazione.

Questa lettera segna un passaggio netto dalle precedenti, uno spartiacque tra tutto quello che avete letto sino adesso e quello che verrà.

La realtà della prestazione è sotto i nostri occhi, ci siamo immersi fino al collo, anzi siamo cresciuti con essa.

La scuola, i genitori, l’università, lo stato, le aziende, il nostro capo e le dinamiche sociali spingono affinché ognuno di noi dia il massimo, sia prestante, per fare la differenza rispetto agli altri.

Viviamo in un ambiente dominato dalla legge della prestazione, dove quello che conta più di tutto sono i risultati, emergere dalla massa, guadagnare, scalare le posizioni sociali, così come avere un fisico perfetto e eccellere nello sport.

La trappola della prestazione

Non siamo più animali sociali, bensì animali prestazionali.

I voti scolastici e universitari, nella nostra formazione, ci identificano e lo hanno sempre fatto. Vorremmo voti migliori e aspirare a diventare i più bravi della classe.

Lo stesso vale nel lavoro, prendere il posto del collega manager, o avere uno stipendio più alto.

Così come battere la concorrenza se si è proprietari di azienda e imprenditori.

Sconfiggere gli avversari negli sport di squadra o, in quelli individuali, arrivare prima degli altri al traguardo.

E oggi come non mai abbiamo i dati della prestazione sotto mano.

Il fatturato e l’andamento dell’azienda, per poi fare meglio i mesi seguenti e l’anno successivo.

I watt, VO2max, FC, dispendio calorico, chilometri al mese, velocità media, e tanto altro per il monitoraggio della performance sportiva di endurance, al fine di migliorare.

Anche la salute e l’alimentazione non sono esenti da questo meccanismo, anzi lo sono ancora di più.

La salute è elevata a nuova divinità, specie dopo una pandemia globale, e monitorare le caratteristiche cliniche è diventato impellente.

Troviamo sempre più ossessionati della salute, come dell’allenamento e del fitness.

I professionisti della salute sono le nuove divinità, pronte a salvarti da malanni, sovrappeso, depressione e tutte le patologie croniche che caratterizzano questo secolo.

Il burnout è solo un esempio dell’esasperazione della prestazione, e in questo caso si riferisce all’esasperazione delle performance lavorative.

Stremati dal vortice del dover fare sempre di più, ci si ritrova poi esauriti da sè stessi.

Lo stesso vale nello sport: allenarsi il più possibile e migliorare sempre.

Se salta un allenamento ci sentiamo in colpa, così come se diminuiamo l’intensità del lavoro.

Il nuovo nemico e il conflitto non dipende più dallo stato, le tasse, la chiesa, o altre corporazioni (la società del conflitto).

Con il processo di democratizzazione la libertà regna padrona, e il neoliberalismo è la nuova condizione raggiunta e comune a noi tutti.

Il benessere è arrivato anche alla fetta di popolazione meno agiata.

Abbiamo compreso di avere una sola vita, una sola cartuccia da sparare.

E rimosse le briglie della religione e delle altre imposizioni esterne, siamo diventati i veri padroni e sovrani della nostra vita.

Finalmente possiamo decidere liberamente per il nostro futuro e destino, chi vogliamo essere, quale lavoro fare, che dieta seguire, quale professionista scegliere, quale sport praticare, quale scuola e percorso universitario intraprendere.

Un tempo tutto questo non era possibile.

E se da una parte la rivoluzione liberale appena descritta ha rappresentato una grande svolta, grazie anche all’avvento della nuova tecnologia, conferendo più libertà agli individui, dall’altra è anche la nuova spada di Damocle.

Non siamo più soggetti, in quanto il termine significa soggetti a qualcosa, assoggettati a poteri esterni che decidono per la nostra vita, come nelle dittature e oligarchie ancora vigenti.

Siamo diventati individui, liberi pensatori, sovrani e decisori del nostro destino e azioni.

Il superuomo di Nietzche si è palesato, ma non come l’aveva esattamente pensato il filosofo tedesco.

Se vogliamo raggiungere un obiettivo, niente e nessuno ci può fermare, grazie al duro lavoro e impegno, ci insegnano i nuovi membri e capi della società.

Ed in parte è vero, ma questa libertà è solo fittizia, mascherata, superficiale, in pratica un artefatto.

L’autosfruttamento perpetuo

La società della prestazione infatti è una società dell’autosfruttamento.

E ora vediamo perché, entriamo nel dettaglio di queste affermazioni.

Capiremo il motivo per il quale tutta questa nuova libertà può essere una lama a doppio taglio.

Molte persone potrebbero obiettare che la competizione non è mai rivolta contro gli altri, dettata dal confronto, gelosia, paragone, e voglia di sopraffare chi si trova nel nostro campo di battaglia.

Invece si tratta piuttosto di una sfida contro sé stessi, per fare sempre meglio, e puntare al miglioramento costante delle nostre capacità psico-fisiche, nel lavoro, dieta, fisico e allenamento.

E’ questa persona che incarna al meglio il mito americano, della scalata sociale oggi possibile per tutti, anche per chi parte da una posizione svantaggiata.

L’imprenditore che si fa da solo, o il calciatore delle favelas, il self-made man.

Start-up e nuovi giovani influencer possono raggiungere guadagni e successo inimmaginabile, se solo paragonato a qualche decennio fa.

In virtù di questo paradigma, oggi tutti vogliono un nutrizionista, un allenatore, un mental coach, una carriera da perseguire e dati alla mano sul loro miglioramento.

E cosa c’è di negativo in questo nuovo mondo e modo di fare le cose?

Da una parte il miglioramento è il sale della vita, è vero.

E’ gratificante rendersi conto di poter migliorare in qualsiasi sfera della vita ci si stia impegnando.

Esistono tuttavia dei risvolti negativi in queste aspirazioni e brama di eccellere.

Ne ho visti gli effetti sia come professionista che come lettore e ricercatore, ma anche come sportivo agonista e lavoratore in prima persona.

Io stesso ho sempre parlato e mi sono sempre occupato di prestazione sportiva, biohacking, sistemi dietetici efficaci, automonitoraggio e miglioramento, così come di nutrizione e performance.

Già a 5 anni gareggiavo nelle categorie giovanili di ciclismo, per poi passare al calcio, triathlon, corpo libero e sollevamento pesi, di nuovo ciclismo.

Anche io ho perseguito una carriera accademica di studio, universitaria, mi sono formato e ho aspirato al massimo per il mio futuro lavorativo (chi non lo farebbe?).

Nonostante sia in prima persona un animale da prestazione, abituato a sbarazzare la concorrenza nello sport e lavoro, a puntare alla mia crescita personale all’ennesima potenza, ho capito di essere un fautore e promotore della società della prestazione.

E sono sfociato nel biohacking, che altro non è che l’opposto di chi trascura la propria salute e mangia male.

E’ il transumanesimo o post-umano, cioè l’individuo che non vuole più solo mangiare bene e far sport, bensì conoscersi più a fondo e ottimizzarsi.

Aderire al manifesto l’uomo non deve morire prospettato nell’ultima newsletter.

Consapevoli che abbiamo solo una vita, che la vita non ha senso, e che i giorni, il tempo e gli anni passano velocemente per tutti, ci siamo decisi di lasciare il segno, impegnarsi il più possibile per fare carriera, soldi, essere ricordati, aderire ad un progetto lavorativo o sportivo.

Chi si occupa del progetto lavorativo spesso mette in secondo piano la salute, ha problemi psicologici più o meno grandi e spesso è sovrappeso, trascurato.

Chi si occupa del progetto sportivo, o di salute, spesso diventa ossessionato, e finisce per esaurire corpo e mente in questa corsa senza una meta definita: non esiste infatti una fine o un traguardo.

Questo perchè non siamo mai pienamente soddisfatti degli obiettivi raggiunti, e probabilmente non lo saremo mai.

Non esiste mai un momento di celebrazione, di festa, in cui ci si guarda indietro e gioisce per quanto fatto.

Si è subito proiettati alla prossima mossa e azione, prima ancora di terminare qualcosa in programma stiamo già pensando a cosa fare dopo.

La corsa finisce con la morte, la fine dei nostri giorni, o con la comparsa di problemi mentali come depressione, ansia, disturbi dell’umore, sindrome del burnout.

All’opposto, in poco tempo, da macchine produttive e iper-prestanti si diventa incapaci di portare a termine anche il compito più semplice del mondo, tanto la motivazione e la forza di volontà sono a terra.

Benvenuti nella società della prestazione.

Il nemico più grande: te stesso

E se pensi di non farne parte ti stai sbagliando, presto o tardi gli effetti negativi di questo sistema potrebbero manifestarsi.

E diventa ancor più difficile rendersene conto, essere veramente consapevoli del problema, tanto siamo cresciuti nella realtà della prestazione.

Il nemico più grande diventa il nostro io, vogliamo rendere conto e risultati al nostro io sfruttatore, per poi ritrovarci sfruttati, vittime del carnefice che alberga in ognuno di noi.

Quante volte ci siamo spinti oltre il lavoro che dovevamo fare, solo per compiacere le nostre ambizioni, abbiamo fatto un allenamento in più o provato a dare oltre il massimo in quello che facciamo.

In pratica è una violenza su noi stessi, in nome della cultura della produttività, prestazione e risultati.

Se non portiamo risultati, abbiamo un bel lavoro, riconosciuto e un bel fisico non saremo mai nessuno.

Non possiamo neanche presentarci sul palcoscenico della vita.

La maggior parte delle problematiche mentali, di ansie, disturbi, suicidi, e crisi esistenziali dipende dalla società della prestazione.

Senza saperlo ci ritroviamo in questo vortice dal quale diventa impossibile uscirne, solo la fine dei nostri giorni o l’esaurimento della mente può dare un freno a questa ambizione interminabile.

E l’uso dei social network ha amplificato ancora di più la società del burnout, in cui l’algoritmo fa da padrone.

Cresce chi è in grado di mettersi in mostra più degli altri, pubblica di più, ed esibisce il proprio corpo e competenze.

Anche gli influencers sono animali da prestazione, solo che la gara con sé stessi avviene nel gioco e nella realtà virtuale dei social network, anziché nella vita reale.

E anche l’aumento dei followers potenzialmente è infinito, non esiste un punto in cui possiamo ritenerci soddisfatti.

Ho dieci mila follower? ne voglio 100 mila. Ne ho 100 mila? Ne voglio un milione.

Se questa ossessione per il successo ha riguardato i ricchi che lavorano per il mero guadagno, investendo in case, azioni, o nuovi business, e non sono mai soddisfatti della propria liquidità, reinvestendo il denaro anziché godersi la vita, oggi riguarda anche chi non ha come obiettivo arricchirsi.

Non conta il successo finanziario, ma il successo del proprio profilo Instagram, di quanti follower detengo, che diventa una spirale dal quale si viene facilmente risucchiati.

Dobbiamo esibirci il più possibile, fare dieta, allenamento e mostrare i fisici perfetti, così da avere più follower e mi piace.

Si diventa esposti come una merce, non persone, per alimentare costantemente il proprio ego.

E’ la società dei narcisisti.

Doping sportivo e bodybuilding sono solo la manifestazione estremizzata della realtà della prestazione.

E il depresso non è altro che la persona esaurita dalla propria sovranità, che però finisce per non avere più la forza di essere padrone di sé stesso.

Diventa fiaccato dalla continua mania della presa di iniziativa e del dover fare, esibire, postare, lavorare.

Non c’è più tempo per fermarsi, riflettere, annoiarsi, godere del sano esercizio fisico e di un bel paesaggio.

Il superuomo così diventa l’ultimo uomo.

Il soggetto di prestazione è un iperattivo per eccellenza.

E’ impossibile che non lo troviamo impegnato in qualche cosa.

Durante il corso delle mie visite con i pazienti e clienti, molte persone riferiscono di non aver mai avuto un momento così lento, libero, calmo, come sedersi in uno studio per parlare, riflettere e ascoltarsi.

E proprio chi più è vittima di questa realtà non riesce in questo esercizio di calma e dialogo.

Sono iperattivi, si muovono continuamente, fanno mille domande, vogliono conoscere le calorie del piano, avere i risultati dei centimetri, peso, e test.

La prima cosa che fanno appena entrati è quella di spogliarsi, per salire sulla bilancia e verificare il peso perso. Senza che nessuno gli e lo abbia chiesto, perché il risultato è tutto quello che conta.

Il vero superuomo: oltre la prestazione

Nietzche aveva prospettato il superuomo, ma lo avevo concepito ben diverso dall’animale prestazionale a cui siamo giunti oggi.

Il superuomo nietzcheano è un contro-modello culturalmente critico del soggetto di prestazione esaurito e iperattivo.

Appare piuttosto come l’uomo (o donna) della calma, della contemplazione, si muove lentamente, e prova disgusto per ciò che è troppo veloce, vivo, e frenetico.

[..] Voi male adoperate: la vostra assiduità non è che una fuga, una volontà di dimenticare voi stessi. Se avreste maggior fede nella vita vi prostituireste assai meno. Ma per attendere – anche in ozio!- vi manca il punto di appoggio interno.

Così parlò Zarathustra, Nietzche.

Il burnout non è tanto la manifestazione di un individuo cui manca la forza di essere il padrone e sovrano di sè stesso, ma il contrario.

E’ la conseguenza patologica di un autosfruttamento volontario perpetuato nel tempo.

E il modello di produzione capitalistico non è che la punta dell’iceberg di questa società della prestazione, burnout, performance e autosfruttamento, per individui flessibili che finiscono però per esaurirsi.

Qual è la soluzione?

Dobbiamo chiamarci fuori il prima possibile da questa cultura, società e modo di vivere.

Dire No, grazie al lavaggio del cervello.

Preferisco una vita diversa, fatta di gioia, amore, lentezza, salute, cibo vero, vita lenta e tempo in natura.

E anche il lavoro, che ovviamente finisce per identificarci, ma il nostro ego non deve prendere il sopravvento.

L’attività lavorativa deve essere un modo per aiutare gli altri a vivere meglio, rendere il mondo un posto migliore, rigenerare la natura, e avere uno scopo.

Tutto il resto non serve, dimentichiamoci della carriera.

L’ozio, una vita con ritmi lenta, momenti gioiosi di festa e celebrazioni, la noia, la contemplazione, respirazione e meditazione, nonché tempo in natura possono guarirci da questa logica.

Insieme al cibo vero e alle persone giuste.

Il cibo industriale e i supermercati sono pensati proprio per i soggetti prestazionali, che devono vivere veloce, lavorare al massimo, fare più cose possibile.

Non hanno tempo per selezionare il cibo locale, prodotto con ritmi più lunghi e lenti (slow food), naturale, sano, come madre natura lo offre.

Dolci, e cibo che dà sollievo al palato, fungono da anestetizzante per questa frenesia e piattume, l’unica gratificazione di una vita di sacrifici.

E l’uomo moderno è diventato un maestro nel sacrificare sé stesso in nome della carriera, prestazione o performance sportiva.

Per favore: non ossessionarti con la dieta, e lo scrive un nutrizionista di professione.

Sono favorevole all’automonitoraggio, biohacking e pratiche per aumentare la tua salute, ma solo come ricerca per un’ottimizzazione efficace, per passione e gusto di conoscere sé stessi, oltre che ricerca scientifica.

Seguire un protocollo alimentare personalizzato, avere un programma di allenamento, e monitorare la propria massa muscolare, grassa, metabolismo, analisi, e tutto il resto, per vivere una vita libera dalla malattia e i vincoli della sanità, come medicina preventiva.

Non per sviluppare nuove ossessioni, perché se poi non sono in forma e con parametri migliori di prima allora non sono soddisfatto.

I parametri fluttuano e sono variabili in base ad una miriade di fattori, non siamo macchine.

Siamo fatti di emozioni, un corpo, spirito e tanto altro.

Non possiamo ridurci ad una macchina prestazionale, con parametri da monitorare continuamente per la nostra performance.

L’odierna società della sopravvivenza, che assolutizza ciò che è sano, abolisce il bello. La nuda, sana vita, che assume oggi la forma di un sopravvivere isterico, si rovescia nel morto, anzi nel morto vivente. Siamo diventati zombie della salute e del fitness, zombie della prestazione e del botox. Così oggi siamo troppo morti per vivere e troppo vivi per morire.”

The burnout society, Byung-Chul Han

Il libro The burnout society è di un autore giapponese, che insegna filosofia all’Università di Berlino, e affronta di petto il problema della società della prestazione, e la critica fino al midollo.

Personalmente questa lettura mi ha cambiato la vita, e se vuoi approfondire questo problema consiglio fortemente questo libro, anche se certi passaggi possono richiedere alcune nozioni di filosofia.

La via del bosco

La soluzione del chiamarsi fuori, del diniego, della non-azione antitetiche all’iperattività dell’uomo post-moderno potrebbe non bastare.

Esiste un’altra soluzione, che non la sostituisce, anzi è parallela e funzionale al nuovo contesto. E si tratta di utilizzare il mondo social, l’online, e il personal brand in un modo unico.

Non tanto per l’esibizione e mercificazione di sè stessi, ma per dare valore e contenuti utili alle altre persone, per sfruttare la tecnologia social a nostro vantaggio, e non essere sfruttati.

Parleremo in futuro della via dei social, per diventare indipendenti dal punto di vista economico, e avere il tempo libero per quelle attività prospettate veramente rigeneranti e godere della vita a pieno.

Con la newsletter di oggi voglio fondare insieme a voi una nuova tribù di individui che rifiutano la politica e società aberrante della prestazione.

Ribelli in persona che prendono la via del bosco, come scrive Ernst Junger ne: Il trattato del ribelle.

La via del bosco è fatta per chi non corre, non è iperattivo, ossessionato, iper-lavoratore, stakanovista, e per tutti gli altri animali da prestazione che pensano solo a soldi, guadagno e successo.

Per chi non pratica multitasking e ha la capacità della vera concentrazione, per immergersi in attività piacevoli e creative.

La via del bosco è una scuola di vita per chi tiene alla propria salute con parsimonia, vive nell’equilibrio, contemplazione, lentezza, minimalismo, a contatto con gli elementi naturali, mangia cibo vero e vuole ottimizzarsi per il benessere generale e degli altri.

Non c’è soluzione alla società della prestazione, se non la via del bosco.

La società del burnout porta all’esaurimento di corpo e mente, alla malattia, all’ossessione, al suicidio morale (e reale!) alla depressione, alla violenza contro sé stessi, autosfruttamento e autodistruzione.

E’ questo a cui aspiriamo?

Pensiamoci e riflettiamo.

Prenditi del tempo.

Scegliamo la via del bosco e non torniamo più indietro.

Una vita magnifica, insieme alla salute, cibo vero, e persone autentiche ci aspettano.

Dott. Samuele Valentini